• Xavier Dolan-Tadros, Juste la fin du Monde (È solo la fine del mondo), dalla piece di Jean-Luc Lagarce, sceneggiatore francese morto di AIDS nel 1995, con Marion Cotillard, Gaspard Ulliel, Vincent Cassel, Léa Seydoux e Nathalie Baye.
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Nel film di Xavier Dolan-Tadros (Montreal 1989), È solo la fine del mondo, un giovane uomo (scopriremo poi che ha 34 anni) raggiunge la sua famiglia dopo una lunga ininterrotta assenza per annunciare di avere i giorni contati.
L'uomo, Louis (impersonato da Gaspard Ulliel), sceneggiatore teatrale di successo, dodici anni prima, è scomparso da casa per andare a vivere nel quartiere gay di una grande città, mantenendo con la famiglia solo sporadiche comunicazioni via cartolina, per lo più in occasione dei compleanni.
La fortissima tensione del film, si esprime, da una parte, nel desiderio di Louise di sgravarsi del suo angosciante fardello e, pur ribadendo l'intenzione di «dare agli altri e anche a me stesso l'illusione di essere fino alla fine padrone della mia vita», forse di recuperare in estremo l'affetto dei suoi cari o, almeno, suscitarne la compassione; dall'altra, nell'incoercibile impulso dei vari componenti della famiglia di esprimere se stessi, di essere riconosciuti nelle proprie aspirazioni, nei propri sogni, nelle proprie opinioni di fronte a una persona che amano che rispettano, che stimano, che hanno un po' idealizzato, del cui successo sono orgogliosi, nei cui confronti nutrono, con l'affetto, un certo risentimento per essere stati “abbandonati”.
In mezzo al campo, si staglia la figura di Antoine (Vincent Cassel), il fratello maggiore, che come un arbitro inflessibile interferisce con sarcasmo nel gioco delle faticose conversazioni, interrompendone il flusso, comminando punizioni e decretando espulsioni, ben intenzionato a impedire che la famiglia sprofondi nella disperazione di una nuova mazzata, a costo anche di compromettere quell'unico prezioso fugace istante di serenità.
Il tutto è sottolineato dalla regia di Dolan-Tadros nell'angusto set in cui prevalgono i primi piani dei personaggi, inquadrati a bruciapelo dalla soggettiva dell'interlocutore (e dello spettatore); il giuoco degli sguardi, in un silenzio dettato dalla reticenza ad affrontare ciò che aleggia inespresso, quell'unico sinistro annuncio che è il solo frammento di realtà oggettiva in un oceano di chiacchiere.
Momenti di forte intensità si manifestano nei faccia-a-faccia dei protagonisti: con Suzanne (Léa Seydoux), la sorella che conserva un vago ricordo di Louise, partito quando era ancora una bambina di dieci anni; con Catherine (Marion Cotillard) che Louis incontra per la prima volta, la cognata dolce che tutti vorremmo avere; con Martine (Nathalie Baye) la madre un po' svampita ma consapevole delle dinamiche familiari; con Antoine (Vincent Cassel), il fratellone, frustrato, disilluso e aggressivo, l'unico che ha probabilmente intuito (ma, di conseguenza, anche la moglie, Catherine) il messaggio che Louis è venuto ad annunciare.
Le conversazioni tra i famigliari nascono tra i migliori auspici, si infiammano con esplosioni di gratuita violenza, per spegnersi con le lacrime agli occhi nell'esasperazione. Si alternano a silenzi fatti di sguardi che esprimono molto di più di quello che qualsiasi discorso potrebbe sperare di significare.
Quando Catherine azzarda una domanda imbarazzata: «Quanto tempo…?» Louise risponde evasivo: «Quanto tempo… cosa?»
Fino all'ultimo lo spettatore è tenuto in sospeso in attesa di una conclusione coerente con le premesse dell'opera, che si chiude con una scena surreale: dall'alloggiamento dell'orologio a cucù, si sprigiona un passero che sfreccia in lungo e in largo per la stanza in cui Louis è in solitaria attesa. Stupefatto, il protagonista è costretto a brusche manovre per evitare l'impatto con il volatile. È forse un simbolo dell'inafferrabilità del tempo, dell'impossibilità di recuperare quello che è stato sprecato. Si rischia di fare peggio. Meglio lasciare tutto com'è.
È solo la fine del mondo è un film sui rapporti famigliari. La tematica gay è appena sfiorata. Il film è stato girato a Montreal e in una zona periferica di Laval, Quebec, in una piccola casa senza carattere a cominciare dall'inizio del 2015, ma potrebbe essere ambientato in qualsiasi luogo. Nell'intenzione del regista, la scena dovrebbe svolgersi in una Francia dotata di una leggera apparenza di Canada.
La scelta di cinque tra i migliori attori francesi sfida la forte inclinazione Quebecois insita nel testo di Lagarce, zeppo, come chi ha più o meno brevemente vissuto in quel paese immagina, di un forte accento e di espressioni idiomatiche in gran parte intraducibili.
La sospensione dell'incredulità è totale. La regia incalzante e il cast superdotato non permettono allo spettatore di ricordarsi neppure un istante di stare assistendo a un opera cinematografica e la catarsi finale compensa appieno la tensione accumulata.
Dolan è il secondo regista canadese ad aver ricevuto il Grand Prix a Cannes (l'altro è Atom Egoyan per Il dolce domani, 1997). Ha vinto anche sei Canadian Screen Awards, compreso il premio per miglior film, e tre premi César, compreso il premio come miglior regista.
Il film è dedicato a François Barbeau (1935-2016), il costumista con cui Dolan-Tadros è stato insignito del canadese premio Genie per i costumi del film Lawrence anywhere (2012).