• Nel 2004, Luigi Zingales e l'indiano Raghuram Rajan scrissero un saggio dal titolo: Salvare il capitalismo dai capitalisti. Forse, a voler guardare con gli occhiali giusti, si sarebbero potuti scorgere in quel saggio i parametri d'interpretazione di quello che quest'anno, sarebbe successo nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Zingales e Raian partivano dalla situazione italiana per mettere in guardia da un possibile modello applicabile a qualsiasi alro paese. A dodici anni di distanza dalla prima pubblicazione, ripropongo la recensione del saggio in questione a beneficio di chiunque sia, come me, alla ricerca di lumi su quanto sta accadendo alle democrazie più avanzate.
«L'Italia è un esempio da manuale della degenerazione del capitalismo in un sistema di élite, fatto dalle élite, e per le élite».
Stupisce incontrare un'affermazione così categorica, non nel pamphlét di un intemperante gruppo eversivo, ma tra le prime pagine del saggio a due mani di due accademici della Graduate School of Business della Chicago University: l'italiano Luigi Zingales e l'indiano Raghuram Rajan. Interessante fin dal titolo: Salvare il capitalismo dai capitalisti.
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In effetti, con il tracollo del comunismo, il capitalismo è rimasto l'unico sistema economico a regolare gli scambi tra le persone e tra le comunità. La globalizzazione ha portato da più parti a domandarsi se davvero sia ancora il miglior sistema possibile o, al contrario, se non possa e non debba essere migliorato. E come.
Gli argomenti del movimento no-global sono noti, grazie soprattutto alla risonanza che riescono a ottenere le manifestazioni dei suoi sostenitori. Meno note sono le riflessioni di quei critici che, pur pensando che il capitalismo – o, meglio, il sistema di libero mercato – sia il modo più efficace di organizzare l'attività economica, sono convinti che sia urgente apportare delle correzioni, non per renderlo più efficace e più giusto, ma per evitare che la democrazia possa essere trascinata in una sua rovinosa caduta.
Le riflessioni di questi critici rimangono in ombra, non solo per l'aplombe con cui gli accademici in grisaglia sono usi sostenere le proprie opinioni, ma per l'evidente disinteresse di quei potenti capitalisti che beneficiano dall'appartenenza alle élite solidali e coese, con contatti politici inossidabili e con una linea di credito illimitata, a cui si riferisce l'affermazione in apertura.
La presenza di queste figure di capitalisti mette in evidenza una stridente contraddizione con il supposto liberismo ad oltranza che dovrebbe governare la globalizzazione dei mercati. Le anomalie normative che permettono ai “dinosauri” di sopravvivere, spesso coprendo i propri guasti con operazioni di cosmesi contabile che permettono di eludere tutti i controlli, hanno provocato recentemente disastri finanziari di incalcolabile entità, che, incidentalmente, hanno eroso ulteriormente la fiducia dei cittadini-risparmiatori nel sistema bancario e nelle istituzioni in generale.
Proprio in queste occasioni si è potuto confrontare la facilità con cui potenti nomi dell'economia ottengono la fiducia delle banche (a sproposito), con le difficoltà che incontrano alcune piccole e medie imprese, innovative e ben amministrate, a trovare l'ossigeno per gestire il proprio successo.
Purtroppo le élite industriali trovano un alleato formidabile contro la liberalizzazione dei mercati in quello che dovrebbbe essere proprio il loro peggior nemico: il sindacato dei lavoratori, su cui hanno facile presa tutte le volte che, con le loro lamentazioni, ventilano lo spettro della disoccupazione.
«In realtà il processo di liberalizzazione è dannoso principalmente per i paesi con un ambiente istituzionale debole, caratterizzato da corruzione diffusa, burocrazie statali inefficienti e un'applicazione contrattuale carente. In paesi simili, le aziende affermate anziché aderire alla concorrenza cercano di combatterla. Restano intrappolate in una rete di cartelli difensivi e crediti basati sulle conoscenze, che rende l'intero sistema ottuso, inflessibile, e soprattutto soggetto a shock economici sfavorevoli.»
Le realtà industriali obsolete dovrebbero avere la possibilità di fallire. Costa meno allo Stato e al sistema economico assistere i lavoratori in difficoltà con un programma di “paracadute" sociali, che sovvenzionare per anni aziende decotte che non hanno più possibilità di competere.
Purtroppo il costo politico di una tale linea di condotta è pericolosamente alto ed espone a elevati rischi di disordine sociale. Inoltre i partiti, si sa, hanno le loro spese Ecco quindi determinarsi lo scenario peggiore, con i gruppi monopolisti che presidiano il mercato, per difenderlo dall'ascesa di nuove aziende più efficienti e più creative e dall'ingresso di realtà straniere più competitive. Per far ciò, in combutta con il sistema bancario, controllano i rubinetti del credito, le loro lobby ispirano ai politici l'innalzamento di barriere doganali di protezione, mentre la cassa d'integrazione fa il resto. «Non è sorprendente che in Italia tutte le nuove opportunità di investimento, dai telefono cellulari alle società di servizi pubblici neoprivatizzate, siano sempre sfruttate da pochi privilegiati.»
Il risultato si ripercuote sugli imprenditori più capaci, a cui vengono negate le risorse finanziarie per far decollare le realtà produttive più promettenti; sul contribuente, che è costretto a sovvenzionare per decenni interi settori industriali obsoleti, gestiti da dirigenti incapaci; sul consumatore, che paga un prezzo maggiorato per servizi e prodotti di qualità discutibile.
A lungo andare, con l'apertura dei mercati o con l'avvento di nuove tecnologie, perde di competitività l'intero sistema economico nazionale e si riaffaccia lo spauracchio dei licenziamenti, questa volta generalizzati e non più procastinabili.
«La verità è che l'apertura dei mercati internazionali dei beni e dei capitali ha allineato l'interesse delle élite a quello del mercato [...] sotto la minaccia della competizione internazionale le imprese vogliono un'infrastruttura efficiente, che permetta loro di competere ad armi pari». Una situazione di crisi come questa è in realtà, è un momento magico per le opportunità di rinnovamento.
Quando non c'è più tempo per interventi placebo occorre attivare strategie di rinnovamento, con il consenso di tutti (élite industriali, sindacati e politici), accomunati dalla minaccia di soccombere, non più ad opera di giovani imprenditori rampanti, ma a causa di una non più arginabile competizione straniera.
Le proposte di Zingales e Rajan poggiano su quattro pilastri: «In primo luogo, [...] è importante che la proprietà non sia concentrata nelle mani di pochi [...]. In secondo luogo è essenziale disporre di una rete di protezione per i disagiati [...]. In terzo luogo è possibile limitare lo spazio di manovra politica mantenendo aperti i confini. [...] Infine, il pubblico deve essere reso più consapevole dei benefici che trae dai mercati e degli svantaggi da politiche anticoncorrenziali apparentemente innocue.»
Interessante, nella parte centrale del libro, l'indagine svolta per individuare nel corso della storia, quegli episodi che hanno favorito in alcunì paesi l'ascesa di regimi democratici e di mercati liberi, ostacolandoli in altri paesi. L'excursus offre al lettore una prospettiva storica dello sviluppo finanziario in rapporto allo sviluppo democratico che stimola interessanti riflessioni anche sulla propria realtà territoriale. «[...] i paesi, o determinate regioni come l'Italia meridionale o l'India nordorientale, caratterizzati da grandi proprietà terriere con una società di tipo feudale hanno avuto notevoli difficoltà a istituire lo stato di diritto e il rispetto dei diritti di proprietà.»
In conclusione, dalla lettura di Salvare il capitalismo dai capitalisti emerge sempre più chiaramente quanto sia futile ostinarsi a interpretare la realtà socio-economica in chiave di contrapposizione tra una destra legata ai proprietari dei mezzi di produzione e una sinistra che rappresenta la forza lavoro. In passato, la destra più reazionaria si è spesso alleata con la sinistra sindacale allo scopo di perpetuare situazioni di inefficienza, con grande sperpero del denaro pubblico, a scapito della competitività del sistema-paese.
Una configurazione più aderente alla realtà, dispone su un lato della scacchiera una forza impegnata, da una parte, a mantenere aperti i mercati, a offrire a tutti le stesse opportunità di accedere al credito, di emergere e di realizzare i propri progetti e, dall'altra, ad assistere coloro che dalla competizione possono uscire perdenti.
Questa forza si contrappone alla parte che rappresenta gli interessi delle grandi dinastie imprenditoriali e delle burocrazie assistenziali, basati su di una rete di relazioni, impegnati a difendere e a perpetuare il proprio debordante potere, oltre ogni regola, oltre ogni ragionevole logica e oltre ogni possibile interesse, tranne che il proprio.
Quale parte politica sarebbe disposta a schierarsi dalla parte della scacchiera che rappresenta l'interesse pubblico? Quale opinione pubblica la potrà sostenere? Senza una maggiore consapevolezza da parte di tutti di cosa sia quell'interesse, questa rappresentanza dell'elettorato è destinata a rimanere compressa tra l'avidità delle élite e le aspirazioni malintese di una classe lavorativa destinata, in ogni caso, a trovarsi con lo stecco più corto in mano.
L'opera è organizzata nello stile anglosassone dei testi universitari, libera da tecnicismi inutili che ne ostacolino la lettura. Contiene inoltre interessantissime informazioni, frutto delle ricerche storiche condotte dagli autori per la sua stesura. Propone infine una prospettiva lucida, che sovverte l'ordine dei fattori con cui siamo abituati a interpretare la realtà. Una prospettiva che può essere considerata per certi aspetti scandalosa, ma illuminante.
(Originariamente apparso su ItaliaLibriNET il 13 settembre 2004).