• Quello che colpisce maggiormente, dell’opera di Joan Miró, è il colore. Non ci si accorge però che il “colore” che l’artista usa con maggior spavalderia è il nero. È l’uso spregiudicato di questo “non-colore” (come il bianco è assenza di colore, il nero è assenza di luce), gettato in faccia all’osservatore come una provocazione, che ci fa apprezzare la vivacità delle sue opere.
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Intorno al segno nero, graffito, più ancora che grafema, hanno preso progressivamente vita tutte le sue tele. Il nero è così catastrofe che prelude alla cosmogenesi di un nuovo variopinto firmamento; caos che necessita di un’interpretazione, attributo di una qualche visione di ordine.
Tra gioco e trasgressione, nelle sculture, invece, Miró assembla materiali eterogenei: mattone, latta, plastica. Il tutto tenuto insieme dal fango della sua creta e trasformato in gesso per la colata che plasma il bronzo finale. Non contento di ciò, l’artista afferra pennelli e colori e stende sulla nobiltà del metallo uno smalto di colori accesi, come il giallo, il blu, il rosso...
Per quanto il suo sguardo spazi a 360 gradi, i simboli, di cui popola la tela, sono limitati: personaggio, donna, uccello, poesia, testa, gallo, cane, stelle, topo... Così come i colori: verde; i primari rosso, blu, giallo; il bianco, usato come qualsiasi altro colore; il nero più opaco e assorbente.
Molto approssimativamente, possiamo delineare la collocazione del maestro catalano nella prospettiva dell’Arte del ‘900 come segue. A monte troviamo il primitivismo, i poeti futuristi e il pittore Henri Matisse, più ancora che i maestri impressionisti e cubisti che lo hanno comunque influenzato dal punto di vista artistico ed esistenziale; suoi “compagni di strada” sono il russo Wassily Kandinsky e lo svizzero Paul Klee; a valle si possono scorgere gli americani Alexander Calder, Mark Rothko e Jackson Pollock.
La mostra che il MUDEC di Milano dedica a Joan Miró si concentra su due aspetti distinti: l’esigenza di fondere pittura e poesia, attraverso la formulazione di un vocabolario di simboli per raggiungere l’obiettivo dell'arte di Erato, che è di trasmettere un’emozione prima ancora che sia compreso il senso delle singole parole. Il secondo aspetto è l’intuizione della possibilità di raggiungere nuove forme artistiche attraverso la combinazione di materiali inusuali.
La mostra, sottotitolata: “La forza della materia”, si ripartisce in quattro sezioni collegate all'evoluzione dell'artista. Nella prima si ripercorrono le tappe del dichiarato “assassinio della pittura”, con le sue prime provocazioni e la formulazione di un vocabolario di segni. Nella seconda sono esposte opere più mature, prodotte a Palma di Majorca, nonché le prime sculture in bronzo uscite dalla mano del maestro. Nella terza, intitolata “Antipittura”, sono raccolte alcune tra le opere più critiche sul mondo dell’arte, prodotte a cavallo della retrospettiva dedicatagli dal Grand Palais nel 1974, spesso dipinte su materiali di recupero. Nella quarta sono concentrate le tecniche alternative alla pittura, come l’incisione, la scultura, l’arazzo, che lo conducono alla produzione di multipli e alla collaborazione con artigiani tessitori, grafici, fonditori.
La mostra, frutto della collaborazione tra la famiglia dell’artista, la Fundació Joan Miró di Barcellona e la sua direttrice, Rosa Maria Malet, resterà aperta fino all’11 settembre 2016.
Nel Catalogo, edito da 24Ore Cultura, si trovano i contributi di Joan Punyet Miró e Francesco Poli.