• Ogni tanto esce un film che sicuramente non vincerà un Oscar nè sarà citato tra i Golden Globe, ma che, al termine della proiezione lascia lo spettatore appagato e ricolmo di suggestioni e di episodi su cui rimugginare. È il caso di questo film messo in scena da Scott Frank, noto più per le sue sceneggiature di film tratti da romanzi di Elmore Leonard (Get Shorty, Out of Sight) e Philip Dick (Minority Report), nonché di questo La preda perfetta (2014), di Lawrence Block A Walk Among the Tombstones (Un'altra notte a Brooklyn, 2013, Sellerio Editore Palermo), con Liam Neeson, Dan Stevens, David Harbour, e Boyd Holbrook (tra gli altri) di cui, questa volta, Frank è anche regista.
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Il segreto della riuscita di questo genere di pellicole è materia di non facile definizione.
I personaggi, prima di tutto, non sono né del tutto buoni, né del tutto cattivi, tranne i cattivi, del resto, che sono cattivissimi. Abbiamo Matthew Scudder, un ex poliziotto, ex-alcolista con un passato tragico, che è doloroso rievocare, nella parte del detective “senza licenza” al centro della narrazione. Abbiamo TJ, un ragazzo di strada, nero, abbandonato dalla madre, malato di una rara anemia drepanocitica, appassionato di letteratura poliziesca, che dorme clandestinamente in biblioteca (ci sta già simpatico); abbiamo un tossicodipendente alcolizzato, che sta cercando di smettere. Abbiamo poi il fratello di questi, trafficante di stupefacenti, ma non chiamatelo spacciatore.
Poi abbiamo Jonas, il debole, complessato impiegato del camposanto di Greenwood, il secondo cimitero per grandezza degli Stati Uniti: un uomo che cerca di rimediare ai guai che ha combinato con la letteratura, riscrivendoli. Lui vive attaccato alla madre e sul terrazzo del condominio alleva clandestinamente piccioni. I suoi sogni sono diventati incubi. Ci sono i cattivi a evocarli, «Di loro ti devi preoccupare», suggerisce Jonas a Scudder. Sadici, misogini, assetati di sangue. Il detective (Liam Neeson) li definirà con una parola: “malati”.
L’idea è che una coppia di psicopatici metta le mani su una lista di trafficanti di droga – persone “rispettabili” che a tutte le apparenze vivono una vita di benessere ma senza stravaganze – e ne rapisca le mogli, le fidanzate, le figlie. La categoria è notoriamente dotata di somme significative di denaro contante da stanziare per i suoi traffici sotterranei. Inoltre, i soggetti sono riluttanti a rivolgersi alle forze dell’ordine. Costoro sono le vittime ideali per un sequestro lampo che frutti parecchi quattrini (da qui il titolo italiano). Il tutto avviene in una New York del 1999, attanagliata dal panico del y2k.
Il sequesto però non è che un pretesto per seviziare le vittime amputandone un pezzo alla volta: una tetta qui, un dito là... Insomma, sul raccapricciante andante, nella migliore tradizione noir.
Sicché Matthew Scudder accetta, non senza molti ripensamenti, di aiutare questo trafficante di droga, Kenny, a trovare gli assassini della moglie.
L’incontro in biblioteca con TJ, il ragazzino nero di cui sopra, è fortuito ma determinante e porta un pizzico di poesia in una storia decisamente macabra. Il giovane aiuta il maturo detective, analfabeta digitale, a ricercare a computer tutti i casi collegabili alla vicenda che ha per le mani e a trovare quella piccola tessera che lo porti sulle tracce degli assassini.
Da qui tutto quello che viene dopo, che non sarebbe carino rivelare.
Il bello di questa pellicola è che, dopo un inizio tutto bang bang e fischi di pallottole, prende un andazzo molto più riflessivo, pur mantenendo alta la tensione e impedendo allo spettatore, completamente catturato dalla vicenda, di prendere coscienza degli artifici di quel che sta guardando. Il culmine della tensione si raggiunge quando, nei panni di Cappuccetto Rosso, la figlia tredicenne di un altro trafficante di droga attraversa la strada di fronte al furgone dei nostri criminali assassini.
Il film è stato accolto favorevolmente dalla critica che ha applaudito il ritorno del detective “hardboiled” (disincanto incallito) alla Philip Marlowe o alla Sam Spade, entrambi citati nei dialoghi. In particolare, di Scudder, Frank è particolarmente bravo a far emergere l'evoluzione personale: dall'alcolismo, attraverso un fatto tragico, 8 anni e i 12 passi di Alcoholic Anonimous, alla riabilitazione. Alla fine, emerge che il detective, non solo ha compiuto un drastico cambiamento su se stesso, ma è in grado di aiutare altre persone.
Per raggiungere questo stadio, Scudder ha dovuto imparare ad accettare il male, in qualsiasi forma questo si manifesti nel mondo, e non solo cercare di cancellarlo a colpi di pistola. Può ancora intervenire drasticamente ma preferirebbe non farlo.
Tutti bravi attori, a cominciare da Liam Neeson che, secondo il mio modesto avviso, ha un fisico troppo ingombrante per entrare bene in questo tipo di personaggio, ma che, a maggior ragione, nella prova si destreggia nel migliore dei modi. Per fare un raffronto, Matthew Scudder compensa con la tenerezza quello che Philip Marlow esprime con l’ironia.
Una menzione speciale al giovane Brian "Astro" Bradley nella parte di TJ, per la simpatia. Per la tragicità a Ólafur Darri Ólafsson nei panni di Jonas Loogan, l’impiegato cimiteriale che fa una veloce apparizione, uscendo dalla porta principale del camposanto per presto ritornarvi con i piedi in avanti.
Il film non vincerà un Oscar, dicevamo. Ciò è dovuto anche alla fotografia (Mihai Malaimare, Jr), forse troppo “dark”, e al set, tutto concentrato su una Brooklin NY notturna, poco popolata, il cui monumento più rilevante è l'ingresso – tra il gotico e il kitch – del cimitero di Greenwood. Tutto questo è però molto aderente allo spirito noir del romanzo e conseguentemente del film.
I personaggi sono a tutto tondo e sviluppati approfonditamente. Per gli amanti del genere, ma anche del buon cinema in generale, è comunque un’occasione da non trascurare.