• Ci sono fenomeni il cui arrivo viene percepito prima che compaiano nel nostro orizzonte visivo. La terra trema; stormi di uccelli si levano in volo terrorizzati; l'aria trasmette una crescente vibrazione, il cielo trascolora e la luce del sole perde progressivamente di luminosità.
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La parola “cinema” evoca un'esperienza collettiva, prossima a quella rituale, quasi ancestrale, dello spettacolo teatrale.
Il fatto è che, nel suo significato più schietto, la parola “Cinema” suggerisce anche l'immagine di un immobile o di una frazione di progetto immobiliare in cui si colloca la parte più rispettabile di un centro commerciale e, per sineddoche, una congrega di gestori di sale cinematografiche avidi di profitti. Due settori decisamente avversi a un servizio – come quello in streaming di Netflix – che permette di assistere ai migliori, più recenti e a quanti più spettacoli cinematografici si voglia, a un costo irrisorio, comodamente dal divano di casa propria.
Per questo, Netflix ha trovato la strada sbarrata a Cannes. Venezia (vedi 75. Mostra del Cinema) è stata più indulgente o forse pragmatica o lungimirante. Alberto Barbera, presidente del Festival, si è scrollato di dosso le obiezioni della stampa con una sonora risata. La seconda obiezione ha riguardato il supposto conflitto d'interesse del presidente della giuria, compatriota del messicano Cuarón. Alle insidiose domande poste in conferenza stampa, Guillermo Del Toro ha finito col rispondere di ritenersi “presidente” di una giuria, non “dittatore”. Questo succedeva il giorno dell'inaugurazione.
Qualche giorno più tardi, la proiezione del film ha lasciato, giurati e pubblico, tutti entusiasti e tutti con la netta impressione di aver appena assistito alla proiezione del film destinato ad essere insignito del più alto riconoscimento.
Oggi, reduce dall'aver ricevuto il Leone d'Oro a Venezia, tre Golden Globe – miglior regista, miglior film straniero e migliore sceneggiatura – con Cuarón appena nominato “miglior regista” dai colleghi della Directors Guild e a circa un mese dalla notte degli Oscar, 10 nomination riverberano nell'atmosfera holliwoodiana già rassegnata, sembrerebbe, a premiare il killer di se stessa.
Perché, diciamolo, ROMA è un film magnifico, un film che ricorda a ognuno di noi la magia e l'emozione provate in certe sale ai tempi delle nostre prime esperienze cinematografiche. Il primo commento che affiora alle labbra di chi emerge dal buio della sala è: «Il Cinema come si faceva una volta».
Per cominciare, due particolari caratteristiche. La prima: il film è in bianco e nero. Girato a colori con un'Alexa 65, è stato in seguito convertito meticolosamente in bianco&nero sotto la supervisione del direttore del Technicolor, maestro del ritocco Steve Scott. La seconda: il film è privo di un motivo musicale di accompagnamento. La colonna sonora è composta soltanto da rumori d'ambiente, da voci e canzoni dalla radio o dal giradischi, spesso provenienti dall'esterno dell'inquadratura, un'altra stanza se non, addirittura, dall'esterno rispetto al set in cui si svolge l'azione.
Una terza caratteristica riguarda i piani di ripresa piuttosto corti, adatti per il piccolo schermo in cui si tende a perdere i particolari distanti. Queste inquadrature rendono però in maniera eccellente sul grande schermo e, anzi, è consigliabile vedere il film in una bella sala cinematografica, con un buon impianto audio dotato di Dolby Surround che permette di apprezzare anche la raffinata qualità del montaggio audio.
Una quarta: «In tutti i sensi – commenta Guillermo Del Toro su Twitter – ROMA è un Affresco, un Murale, non un ritratto. Non solo il modo in cui è otticamente rappresentato [l'angolo di ripresa], ma il modo in cui scorre lateralmente con lunghe carellate. Tutti i dettagli audiovisivi (contesto, disordine sociale, fazioni & politica/morale del tempo) sono lì, all'interno dell'inquadratura.»
Notoriamente il film tratta di un ricordo d'infanzia del regista – che è anche l'autore della sceneggiatura – incentrato sulla figura della tata mexteca Libo (nel film Cleo, impersonata da Yalitza Aparicio), nella grande casa abitata dalla famiglia nel centrale, consumato quartiere residenziale Colonia Roma di Città del Messico.
Il film si apre e si chiude con l'inquadratura di un aereo che passa sul cortile di casa, proveniente o diretto al vicino aeroporto Benito Juárez di Città del Messico, la prima volta, riflesso nell'acqua con cui viene sciacquato il cortile, a rivelare lo spazio che separa la terra e il cielo, uno spazio interamente occupato dalla protagonista. Questo aeroplano suggerisce che nella vita ci sono cose che si ripetono all'infinito; ci sono partenze e ci sono ritorni, cicli che si aprono e si chiudono.
Racconta di un periodo di infantile incoscienza, caratterizzato dall'intenso dramma che si svolge intorno ai figli – inconsapevoli di quanto accade – quando il padre, Antonio (Fernando Grediaga) abbandona la famiglia per unirsi a una donna più giovane, quando lo stesso paese sembra soccombere al disordine.
Mentre ha luogo il balletto di omissioni e di piccole bugie per nascondere la realtà ai più piccoli, certo, ma anche a se stessi, si assiste, prima, al progressivo deterioramento dell'equilibrio nervoso della madre, Sofia (Marina de Tavira), accompagnato al disagio dei figli (Marco Graf, Carlos Peralta, Daniela Demesa, Diego Cortina Autrey), che si traduce in espressioni di violenza reciproca.
La domestica assume un ruolo sempre più centrale nel mantenimento della normalità. Purtroppo, anche Cleo va incontro al proprio personale dramma, nell'incontro con un essere ignobile (Jorge Antonio Guerrero) che la compromette e poi sparisce – guarda un po' – nell'oscurità di una sala cinematografica. Ricomparirà in circostanze drammatiche.
Senza entrare troppo nei particolari, Cuarón sfiora un paio di argomenti centrali alla storia del Messico negli anni 60-70. In particolare la difficile questione della riforma agraria e il dominio incontrastato del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) che, grazie a una combinazione di corruzione, repressione accanita e frode elettorale, ha dominato ininterrottamente il paese dal 1929 al 2000.
In un episodio del film, Cuarón ripercorre l'infame episodio del Corpus Cristi (1971) quando, pretendendo di essere una fazione avversaria, la milizia paramilitare dei “Falchi” attaccò un corteo studentesco pacifico e uccise 120 persone.
Gradualmente, la madre accetta la realtà e, con l'assunzione di un lavoro stabile, anche la situazione familiare si normalizza.
In una delle scene finali, la famiglia prende un giorno di vacanza al mare. Cleo – che non sa nuotare – viene lasciata sola sulla spiaggia con i bambini che sfuggono al suo controllo…
Non vogliamo rovinarvi il finale.
Certo che bisogna che Cuarón debba aver accumulato un bel capitale di fiducia, per riuscire ad ottenere i finanziamenti per fare un film in bianco e nero, ambientato in Messico, con una prima attrice non professionista che impersona una domestica e parla (pochissimo) latino-americano e mixteco. In effetti, accade dopo che il regista ha portato in porto onorabilmente alcune produzioni d'alto profilo, come Harry Potter and the Prisoner of Azkaban, il dramma distopico Children of Men e, più recentemente, l'avvincente avventura spaziale Gravity.
La troupe di ROMA era costituita esclusivamente da soggetti messicani, coetanei del regista, in grado di contribuire con i loro ricordi alla fedele ricostruzione del periodo. Cuarón e Eugenio Caballero (production designer) hanno ricostruito in esterni diversi isolati di Città del Messico (marciapiedi, lampioni, negozi, strade asfaltate…).
In una delle scene d'apertura, vediamo passare davanti al portone della casa, un arrotino, annunciato da un fischietto particolare, evidentemente tipico del personaggio che conduce a mano la sua bicicletta. Era una figura familiare anche da noi. In uno dei rari campi lunghi, sullo sfondo di un vasto piazzale di terra battuta in cui si svolge una festa popolare, si vede passare in lontananza un uomo-razzo, sparato, come per caso, proprio in quel momento.
Comunque, la regia, di Cuarón, la sceneggiatura di Cuarón, la direzione della fotografia, di Cuarón. In parte il montaggio, di Cuarón... Sicuramente, questo è un progetto sul quale Alfonso Cuarón ha meditato a lungo, prima di concretizzarlo, avendo maturato un'idea molto precisa di come avrebbe dovuto essere costruito.
Quando si dice “cura dei particolari”... basti dire che, quando la truppa di fratelli e cugini riuniti in campagna per passare il natale, si abbandona a una corsa a perdifiato nei campi, la macchina da presa si concentra fugacemente nella carrellata su un piccolo rettile in disperata fuga.
ROMA è un film che vi cattura dal primo fotogramma all'ultimo. Riesce a risvegliare quelle emozioni ancestrali che commuovono e, allo stesso tempo, provocano un immotivato entusiasmo, facendovi affezionare ai personaggi e alle loro storie.
Nelle due ore e quindici minuti di proiezione, il volto di Cleo vi conquisterà, dandovi un senso di fiducia e di serena calma; l'agonia amorosa della madre, la sua angoscia derivante dall'incertezza del futuro, vi commuoveranno. Persino la nonna, massiccia, lenta, non proprio il tipo sex-symbol, vi farà affezionare.
Immagino che questo sia quando si dice “la magia del Cinema”.