Noto per la predilezione per storie insolite, paradossali, scabrose, raccontate in maniera anti-convenzionale, a volte proprio bizzarra, David Cronenberg è autore, tra gli altri, di Crash, A Dangerous Method, La promessa dell'Assassino, Cosmopolis... e ultimamente di questo Maps to the Stars (2014).


Maps to the Stars
Maps to the Stars Maps to the Stars
Maps to the Stars
Maps to the Stars

Libertà

Su quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

Su le immagini dorate
Su le armi dei guerrieri
Su la corona dei re
Scrivo il tuo nome

[…]

Su l'assenza che non chiede
Su la nuda solitudine
Su i gradini della morte
Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l'immemore speranza
Scrivo il tuo nome

E in virtù d'una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà.

(Paul Eluard)

Maps to the Stars
Maps to the Stars
Maps to the Stars
Maps to the Stars
Maps to the Stars Maps to the Stars
Maps to the Stars

Lo scenario è quello dell'interno di una casa middle-class californiana, la casa di Stafford Weiss, sua moglie e suo figlio. Il loro passato è stato funestato da fatti inconfessabili che stagliano un'ombra minacciosa e infamante sul loro precario benessere.

La vita di queste tre persone si intreccia con quella dell'attrice Havana Segrand – Julian Moore, il ruolo le ha fruttato nominations per il Golden Globe, per la Palma d'oro a Cannes – che aspira a essere scritturata nel remake di un film già interpretato dalla propria madre. Il trait-d'union tra questi due nuclei è il Dottor Stafford Weiss, interpretato da John Cusack, metà guru, metà terapista delle dive, che combina alla psicanalisi competenze da chiropratico. Havana è una sua paziente.

La moglie di Weiss, Christina (Olivia Williams) fa da agente al figlio quattordicenne, Bernjie (Evan Bird) che è la star in una comedy per adolescenti. Scopriamo che Bernjie, a dispetto della sua età, si è appena disintossicato da una grave dipendenza dagli stupefacenti.

Tanto gentile Bernjie è con una sua giovane ammiratrice, degente terminale in clinica, tanto arrogante si mostra con gli adulti che lo circondano. Ma l'arroganza non è una qualità insolita a Hollywood, dove le persone si dividono tra quelle che vogliono una parte e quelle che questa parte l'hanno ottenuta e semplicemente ora vogliono conservarla e la vogliono ancora e ancora. I primi dipendono dai secondi e ne sono spesso disposti a sopportare le angherie, i capricci e gli abusi per la promessa di un'audizione.

Il collegamento tra le due case si rafforza quando Carrie Fiscer, che interpreta se stessa-sceneggiatrice – una versione “matura” e irriconoscibile dell'affascinante principessa Leila Organa di Guerre Stellari – casualmente raccomanda ad Havana come assistente personale «un'amica che ha conosciuto su internet». Agatha (Mia Wasikowska), appena giunta a Los Angeles, dopo una lunga assenza coatta, dalla Florida è infatti in qualche modo legata a Weiss, Bernjie e Christina.

Come mai Agatha, come prima cosa, non si fa portare dall'autista Jerome Fontana (un'altra limo per Robert Pattinson) a casa dei genitori, ma si fa portare invece sul luogo in cui sopravvive il relitto di una casa bruciata, all'ombra del monte su cui campeggia la grande scritta “Hollywood”? Come mai, ancora, durante l'appuntamento galante con Jerome si fa portare ancora una volta in quel posto?

Tutti questi personaggi condividono un'ossessione: un'allucinazione in cui compaiono delle persone morte. Bambini, per quanto concerne Bernjie e Agatha; la propria madre per quanto concerne Havana.

E condividono il fuoco. Agatha ha il volto, le braccia, le gambe e il ventre sfigurati dal fuoco in un incendio da lei stessa appiccato e calza lunghi guanti e collant coprenti. La madre di Havana è perita in un incendio per il quale la diva si sente responsabile. Bernjie è scampato a un incendio appiccato dalla sorella piromane.

Come un motivo conduttore, ricorrono, non molto comprensibilmente, i versi di un poema di Paul Eluard: Inno alla Libertà, pronunciati da diversi personaggi, primo fra tutti Agatha, come un mantra.

Su quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

[…]

La minaccia di un tabù infranto, l'incesto, si profila progressivamente sempre più apertamente, sempre più impossibile da celare e si profila la pulsione di morte che l'accompagna.

Negli Stati Uniti, il primo film girato da Cronenberg sul suolo americano è stato accolto come un'opera satirica, una feroce critica di Hollywood e delle abitudini e degli atteggiamenti delle persone che popolano la città della celluloide. Il fuoco è il peggior nemico della celluloide.

La frase pronunciata da Havana, «Go back to Kansas, Dorothy» – una citazione da Il mago di Oz, un'allusione all'intensa, irrisolta rivalità tra attrici madre e figlia – scatenerà il furore omicida di Agatha che si servirà della statuetta dell'Oscar per aggredire la donna.

La pulsione di morte avrà la meglio sui figli, almeno su quanti si considerano tali. La morte verrà come una liberazione: per i personaggi ma anche per lo spettatore.

Questo non per dire che il film è brutto. È scostante ma, nonostante la forzatura che passa attraverso Carrie Fisher il film sembra avere un senso, anche se non riusciamo a coglierlo pienamente, e ci facciamo trascinare dalle angosce dei personaggi, dalla loro instancabile, ossessiva, frustrata ricerca della madre e del padre o dalla loro strenua difesa... dai figli. Non proprio quello che potremmo considerare un dramma satirico come lo intendiamo noi, insomma.

Certo, Cronenberg ha una vera passione per la dissacrazione. Neppure in questo film si trattiene. Dopo aver costretto la soave Juliette Binoche in Cosmopolis a infamanti atti di sesso in una limousine con Robert Pattinson, ritorna sul tema con rinnovato furore. Julian Moore è presa da dietro sempre in una limo, sempre con Pattinson, non prima di essersi mostrata sulla tazza in preda a gravi disturbi intestinali.

 Che dire? È già un classico.

Share