Con Il conformista, Bertolucci ci comprime nei tinelli angusti della piccola borghesia, ci espande un secondo più tardi nelle stanze troppo grandi dei ministeri fascisti degli anni '30, per gelarci con una storia che ruota intorno a una forma di assassinio più odiosa del comune: la persecuzione perpetrata da un regime totalitario nei confronti dei dissidenti politici espatriati. La sceneggiatura di Bertolucci – che si avvale della fotografia di Vittorio Storaro – si basa sul romanzo omonimo di Alberto Moravia.


«Mi piace girare – dice il regista in un intervista a Bilge Ebiri di «Vulture» – cercando di adattarmi all'architettura che mi capita. È questo che trovo entusiasmante nel girare in esterni. [...] Per girare in esterni devi saperti muovere come un cieco che “sente” intorno a sé i mobili e i muri e trovo tutto questo stimolante.»

Ne Il conformista le surreali architetture dei palazzi fascisti del quartiere EUR di Roma, si alternano alle strade e alle piazze di una brumosa Parigi dove si svolge una storia a tinte fosche che allude alla pazzia, al vizio, alla perversione, al tradimento all'inganno e al delitto. Sono i frutti di un'età in cui una classe media corrotta, mediocre, priva di valori e di spirito è riuscita a impossessarsi dei gangli del potere. Più che la “banalità del male”, cio a cui si assiste è la “normalità dell'abbiezione”.

Il film comincia nell''alba grigia di Parigi di un lontano 15 ottobre 1938 con un close-up su Marcello Clerici (Jean Louis Trintignan) seduto sul sedile posteriore dell'automobile condotta dal fedele Manganiello (Gastone Moschin). Si tratta di portare a termine l'assai poco onorevole impresa che di sua iniziativa Marcello ha proposto al Ministro dell'Interno: l'eliminazione di un dissidente, il suo ex-docente di liceo professor Quadri.

In una serie di flash-back la macchina da presa s'interroga sulle modalità che hanno portato il protagonista a perseguire con tanto feroce accanimento la sua impossibile normalità.

Durante questi episodi Marcello ripercorre in solitudine piccole crudeltà sugli animali in una grande casa con un padre impazzito d'amore per una madre infedele e dedita al vizio. Per driblare le insidie giocate dall'ambiguo autista di famiglia (Pierre Clementi), il piccolo gli spara con la stessa pistola che l'uomo ha usato per adescare il ragazzo nella propria stanza. A questo punto, per essere “normale”, non resta che “normalizzare” il delitto.

È questa la molla che ha spinto Marcello, in spregio alla propria timidezza, a iscriversi al partito fascista, a lavorare per un ministero rispettato (gli interni), in un ufficio temuto: quello politico?

«Funzionario di Stato con una raccomandazione del camerata Montanari.»

Per portare a termine la sua iniziativa senza destare sospetti, Marcello ha deciso di far coincidere la missione con il suo viaggio di nozze.

Il matrimonio è una ulteriore tappa della sua marcia verso la “normalità”. Stefania Sandrelli incarna perfettamente la mogliettina “oca”, Giulia, che, sotto l'ingenuità, nasconde una sua banale coerenza fatta di convenienze e di piccoli stratagemmi.

Il professor Quadri (Enzo Tarascio) ricorda Marcello come uno studente senza smalto e poco motivato. Nonostante ciò, superata la diffidenza della moglie di Quadri, Anna (Dominique Sanda), dei collaboratori e dello stesso anziano intellettuale, più affascinato dall'ingenua fatalità di Giulia, che dalla grigia mediocrità di Marcello, i quattro passano una serata insieme, in una irresistibile e intossicata Parigi anteguerra.

Marcello sembra attratto da Anna Quadri. Bellissima – tra le altre – la fotografia del loro incontro nella scuola di danza, dove Dominique Sanda con i gambali neri da riscaldamento, sotto il costume da danza, invece di suggerire la grazia delle ballerine evoca la spietatezza di una dominatrix.

Il film tutto è molto sensuale: dalla scena di sesso nello scompartimento degli sposini, al ballo delle due donne, affascinanti nella balera di quartiere. Tutto il rapporto tra le due coppie è giocato sul sospetto, sulla provocazione, sull'ostilità e sulla seduzione.

«A quel hotel est vous?»

«A l'hotel d'Orsai. L'aspettiamo alle cinque.»

«No. C'est sont des choses pour le fammes. L'uomo deve pagare.»

Dopo lo shopping galeotto le due donne apriranno una parentesi lesbo, ma anche Marcello avrà un'incontro ravvicinato con la moglie del professore.

«Marcello, ho paura.Marcello, non farci male.»

Nell'inevitabile epilogo, il protagonista, paralizzato, assiste dal finestrino dell'automobile all'eliminazione orchestrata da Manganiello del professore e della sua giovane compagna. La cruda scena ha ben poco del coevo cinema hollywoodiano. In una “prospettiva dal basso” ante litteram, dopo aver accoltellato Quadri, i sicari arrancano imprecando e sparando tra gli alberi dietro alla fuga disperata di Anna. Colpita al capo, la donna, il bel volto devastato, nell'inerzia dell'istinto di conservazione farà ancora qualche passo prima di stramazzare, foglia tra le foglie cadute della stagione.

Nella libera interpretazione del finale, Marcello scenderà in strada in una Roma inebriata dalla Liberazione, dove si “conformerà” prontamente al nuovo corso della Storia, tradendo il suo amico fascista, il cieco Montanari e, incontrando fortuitamente il suo ex-autista-aguzzino, lo additerà come l'assassino dei Quadri.


 

Quando si parla di “conformismo”, bisogna distinguere tra un conformismo etico, nei confronti dei costumi e delle convenzioni morali, e un conformismo imposto, nei confronti dell'autorità e del potere. Il primo è spontaneo, il secondo è dettato da una coercizione. Il primo può essere frutto di un'influenza involontaria, il secondo è prodotto da un condizionamento intenzionale. Quale percorso, dunque, ha portato quest'individuo desideroso di “conformità” a diventare uno dei più micidiali strumenti del potere?


Si comincia con delle innocue lucertole, poi si uccide un gatto... e si finisce per ammazzare anche l'uomo, come l'inevitabile avverarsi di una premonizione: un pervertito, in fondo, un essere disgustoso, un prete spretato, un «diverso» che insidia l'innocenza di un bambino. Ma sempre essere umano.

E Marcello è un bambino speciale, come speciali sono spesso i bambini che nascono nelle case infelici di una classe «superiore», nelle quali aleggia la decadenza di una genìa in disfacimento. Il padre di Marcello è impazzito (letteralmente) d'amore per la moglie edonista e infedele, una madre che ama il proprio bambino distrattamente. In mancanza di una guida valida, in una fase delicata dello sviluppo, in balia dei luoghi comuni e delle superstizioni della servitù, Marcello crea un collegamento tra la propria estraneità ai compagni e l'infantile transitoria crudeltà dei suoi giochi solitari. Il desiderio di normalità è «una voglia di essere simile a tutti gli altri, dal momento che essere diverso voleva dire essere colpevole».

Ma non c'è come il desiderio di essere in qualche modo per innescare comportamenti opposti. Marcello diventa un esperto di normalità, che sa riconoscere e apprezzare nelle sue molteplici forme, di cui si circonda come se fosse, non la negazione dello stile, ma – in contraddizione con le proprie intenzioni – uno stile in se stesso: il lavoro al ministero (funzionario di polizia con incarichi "speciali"), una fidanzata piccolo-borghese, con una casa piccolo-borghese, con una storia piccolo-borghese di stupri sopportati in silenzio da parte dell'attempato «amico di famiglia». Giulia e Marcello si avviano a un matrimonio piccolo-borghese, con tutto il corredo, il menù, la lista di anonimi e grigi ospiti piccolo-borghesi e la cerimonia in una «chiesa molto ricca ed ornata, [...] dedicata ad un santo della controriforma». Sono questi «gli scacchi di una normalità che andava ricostruita faticosamente, dubbiosamente, sanguinosamente».

Il «classico» viaggio di nozze a Parigi è un'occasione ideale per portare a termine una missione delicata.

Alberto Moravia, in una lettera a Prezzolini, datata alla fine del ’49, scrive: «Io ho finito un lungo romanzo che si chiama Il Conformista e ora lo riscrivo. Uscirà verso la fine del 1950, spero». Nel gennaio, febbraio ’51 la rivista «Comunità» pubblica Il conformista. Racconto di A. Moravia, quasi contemporaneamente all’uscita del romanzo, ma il racconto non ha una vita propria, e altro non appare (come sostiene Tornitore) che un capitolo del romanzo stesso.

Il protagonista ha quasi la stessa età dell’autore – ma lo stesso Moravia rivelerà in un’intervista all'amico Alain Elkann, di non ricordare molto del periodo in cui si svolge l’infanzia di Marcello – e la storia si dipana dagli anni venti fino alla caduta del fascismo. Questo darà luogo a qualche incongruenza tra la giovane età di Marcello e gli incarichi importanti che gli vengono assegnati nella sua veste di funzionario del Servizio Segreto. Incongruenze peraltro impercettibili, in una storia che, alla maniera moraviana, segue binari lucidi e totalmente privi di asperità, eppure, forse talvolta ignoti allo stesso scrittore, che amava affermare, a proposito di altre sue opere, di aver cominciato a scrivere «senza alcun piano preciso».

Lo stile, pur chiaro e asciutto come solo una meditata semplicità può produrre, in questo romanzo appare forse meno «arido», meno da «Codice Civile» – accusa e sommo elogio che accompagnò sempre il giudizio critico su Moravia - e, soprattutto nel racconto dell’infanzia di Marcello e in alcune descrizioni centrali dell’opera, sembra ammorbidirsi e addolcirsi in echi quasi ottocenteschi. La penna si accanisce a volte su certi personaggi con un piacere che lascia trasparire la personale comica insofferenza dell'autore per questa normalità da operetta, che va ritraendo così magistralmente. Così la suocera è «una donna corpulenta, in cui i cedimenti dell'età matura parevano manifestarsi in una specie di disfacimento così del corpo come dell'animo, il primo afflitto da una grassezza tremolante e disossata, il secondo inclinato agli sdilinquimenti di una bontà fisiologica e smancerosa».

E quasi da un angolo della Comédie Humaine, sembra a tratti ritagliarsi la personalità complessa e sfaccettata del protagonista: la sua ansimante ricerca di una normalità che lo riscatti dalla follia del padre, dall’influsso negativo della madre, e dalla sua propria deviazione interiore, che lo spinge alla violenza, vera o presunta.

«Normalità», d’altra parte, significa, per Marcello, non avere idee quasi su niente: «…Questa convinzione gli era venuta dal nulla, come è da credersi che venga alla gente ignorante e comune; dall’aria, insomma, come s’intende quando si dice che un’idea è nell’aria». O piuttosto, l’impossibilità di provare altri sentimenti se non l’orrore, il ribrezzo verso l’anormalità e tutto ciò che in qualche modo può rammentargliene la presenza nel suo stesso passato. O forse ancora, la malinconia che sembra accompagnare qualsiasi riflessione: «…E la sua malinconia era la malinconia, appunto, mischiata di rimpianto che suscita il pensiero delle cose che avrebbero potuto essere e a cui, scegliendo, bisognava per forza rinunziare».

Perfino il breve attimo di confusione amorosa per Lina - la donna del professore che Marcello dovrà uccidere a Parigi - conclusosi davanti al traumatizzante spettacolo degli ambigui, disperati comportamenti di lei, non potrà che disperdersi in un’amara e generica considerazione sull’assenza d’amore tra gli esseri umani, comune fattore di vacuità, e cioè di normalità universale.

Il finale, corposo, risolutore, non lascia spazio ad aperture verso altre soluzioni, che non siano quelle che Marcello stesso propone: «…Ma avrebbe voluto esser sicuro che tutto quello che era avvenuto doveva avvenire; cioè che egli non avrebbe potuto puntare in modo diverso né con esito diverso: di questa sicurezza aveva bisogno più che di una liberazione dai rimorsi che non provava»...

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