• Neghittoso. Ecco un aggettivo che non nasconde le sue origini aristocratiche. Del resto, chi ha detto che il lavoro nobilita? I nobili meridionali si facevano crescere a dismisura l'unghia del dito mignolo, non soltanto per espletare alcune inconfessabili esigenze igieniche, ma anche per dimostrare al mondo di non svolgere alcuna attività manuale, fatta eccezione quella di portare la forchetta alla bocca. “Noblesse oblige”.
Neghittoso deriva dal latino “neglèctus”, participio passato di “negligo”, ovvero trascuro-trascurare. In italiano anche negligere, da cui negligente, ovvero lento, accidioso, apatico, inattivo, indolente, inerte, pigro.
Tra tutte le passioni – scrive La Rochefoucauld – la più ignota a noi stessi è la pigrizia, che è la più ardente e la più maligna tra tutte, anche se la sua violenza è impercettibile e i danni che essa arreca sono oltremodo celati: se consideriamo con attenzione il suo potere, vediamo che la pigrizia s'impadronisce a ogni piè sospinto dei nostri sentimenti, dei nostri interessi e dei nostri piaceri: è la remora capace di fermare i vascelli più grandi, è una bonaccia per gli affari più importanti, più pericolosa degli scogli e delle tempeste più violente Il riposo procurato dalla pigrizia è un fascino segreto esercitato sull'anima che all'improvviso sospende le istanze più ardenti e le risoluzioni più tenaci.
Aspasia ad Atene è stata dapprima una forestiera, dato che la donna vi giunse da Mileto nel V secolo a.C.. Gli storici ci fanno sapere che potesse essere un'etèra, una cortigiana, una escort. Come tale, a differenza delle donne sposate, godeva di una certa libertà di movimento, frequentava gli stessi luoghi frequentati dagli uomini ed aveva accesso alle stesse informazioni, abbastanza da potersi fare addirittura delle opinioni. Più o meno. Come tale, si ipotizza che Aspasia possa essere stata apprezzata anche per le sue qualità intellettuali. Certo è che conobbe Pericle con cui ebbe una relazione coronata dalla nascita di un figlio. Il suo ascendente sul comandante ateniese fu tale da far mormorare che la donna avesse potuto indurre il proprio uomo alla guerra contro Samo.
Ma non è quest'Aspasia che agita le nostre coscienze.
Torna dinanzi al mio pensier talora
Il tuo sembiante, Aspasia.
Aspasia è il nome in codice che l'autore di questi ultimi due versi – Giacomo Leopardi – dedica a una donna conosciuta a Firenze: Fanny Targioni Tozzetti. Una donna che – direbbero oggi i maligni – compiaceva molti ma non il poeta. In realtà, Fanny non faceva altro che cercare di conservare una relazione duratura con un uomo in grado di garantirle un regime di vita accettabile e, nel frattempo, si concedeva qualche scappatella, di tanto in tanto. Dicono.
Tutto qua.
Ma Giacomo se ne era innamorato e soffriva: Mia delizia ed erinni. Il massimo della frustrazione. Anche perché Fanny era una donna seduttiva, il cui salotto pullulava di personalità illustri e di giovanotti aitanti.
Amore e disamore. Giacomo cominciò a scorgere qualche crepa nell'oggetto del desiderio, nell'intelligenza della donna. A quella eccelsa imago/Sorge di rado il femminile ingegno; Offensivo e un po' misogino. Certo, almeno attribuiva a superficialità lo scarso interesse che l'amata manifestava alle sue istanze. La cura di questo amore frustrato è uno sdoppiamento. Da una parte, Fanny, con le sue grazie femminili e la sua seducente mondanità, vanesia e sciocca. Dall'altra Aspasia, l'idea, il concetto della donna ideale, bella, colta e capace d'affetto, obiettivo irraggiungibile proprio perché irreale. Negletta Fanny, dunque, nel senso di dimenticata, abbandonata.
... Che se d'affetti
Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno,
Già del fato mortale a me bastante
E conforto e vendetta è che su l'erba
Qui neghittoso immobile giacendo,
Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.
Neghittoso. Pago di questa consapevolezza, il poeta si consola forse pensando che, sotto quei tessuti leggiadri, sotto le trine e i merletti, sotto le mussoline e le sete, l'ambita preda possa apparire di terga, più simile alla visione qui a fianco (catturata alla mostra che il Grand Palais ha dedicato nell'autunno del 2013 al pittore svizzero Félix Vallotton, 1865-1925) che a quella delle foto in apertura, cioè un po' più umana.
Per dare infine un'idea vera di questa passione – conclude anche La Rochefoucauld – occorre dire che la pigrizia è come una beatitudine dell'anima, che la consola di tutte le perdite e fa le veci di tutti i suoi beni (Massime, 54).
Amen.